Si svolge in questi giorni all’Università La Sapienza l’annuale meeting della TEI (Text Encoding Initiative), il consorzio internazionale che dal 1994 si dedica allo sviluppo di linee guida per la digitalizzazione dei documenti della tradizione umanistica. La TEI ha avuto un’importanza e un’influenza indiscutibili sullo sviluppo delle Digital Humanities, nonostante i molti problemi, sia pratici sia teorici (nessun sistema è perfetto). In più sedi sono state espresse perplessità sull’efficacia di XML-TEI (e di XML in generale) di rappresentare la complessità dei testi stratificati e multiversione, ma le sono state mosse anche obiezioni più radicali, per esempio riguardo all’effettiva “interoperabilità”. In questo intervento però non mi soffermerò su questi temi: lo scopo invece è quello provocare una riflessione su alcuni concetti base della rappresentazione digitale e in particolare sul concetto di “modello”, assai caro alla scuola italiana di Informatica umanistica. Lo spunto mi viene dalla lettura di un saggio del sinologo e filosofo francese François Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e Occidente (Laterza, 2005). Si tratta di una riflessione su alcune delle differenze più evidenti fra il pensiero occidentale e quello cinese. Uno dei punti chiavi è che secondo Jullien per i cinesi “l’efficacia è sempre il risultato di un processo”. Mi sono già altrove soffermato sul legame fra il pensiero sul processo e le tradizioni testuali fluide (vedi Canoni liquidi), ma vengo qui all’analisi del concetto di modello:
A mio parere, la modalità greca di concepire l’efficacia può essere così riassunta: per essere efficace, io costruisco una forma modello, ideale, di cui traccio un piano e che mi pongo come obiettivo; poi inizio ad agire in base al piano e in funzione dell’obiettivo. Si ha, quindi, prima la modellizzazione, la quale poi invoca la propria applicazione (p. 12, grassetti miei).
Come ci hanno insegnato i maestri dell’informatica umanistica (Orlandi, Gigliozzi, Buzzetti, ecc.), è proprio questo ciò che occorre fare prima di iniziare ancora di iniziare a codificare le caratteristiche un documento: modellizzarlo. Da qui passa uno dei momenti più fecondi dell’incontro fra la semiotica strutturalista e l’informatica. Come scriveva nel 1997 Giuseppe Gigliozzi, “quando leggiamo, quindi, ci sembra di interagire con i segni che troviamo sul foglio, mentre in realtà stiamo intessendo un rapporto con il modello del nostro testo che ci siamo saputi costruire”. Ma dal modello costruito o presupposto (uno dei tanti possibili), al modello applicato, il passo non è così breve.
Jullien identifica l’archetipo occidentale del concetto di modello nella Repubblica di Platone, in particolare lì dove il filosofo greco afferma che per essere un generale abile è necessario essere un buon geometra: “E la geometria, ovviamente, rappresenta la modellizzazione perfetta, il modello del modello” (p. 14). Dunque il codificatore-stratega traccia il solco, ma è il markup (XML) che lo difende… Che cosa accade in questo passaggio? Arriviamo all’esempio per me più importante di Jullien, quello che riguarda il contratto:
Personalmente ho avuto modo di verificare come in Cina la firma del contratto non arresti affatto l’evoluzione: il contratto resta in trasformazione. Dapprima gli venivano apportate modificazioni minime; oppure leggere contraddizioni si manifestavano all’interno stesso della situazione, che facevano apparire a poco a poco una fessura – poi una falla, poi una breccia, poi un fossato – fra i testo firmato e l’evoluzione delle cose. In breve si attuava una destabilizzazione che progressivamente comprometteva tutti i punti di riferimento, tanto da condurre i contraenti europei, appena un anno dopo, a non invocare più, per tutelarsi, il contratto firmato. Il processo delle cose, da solo, aveva gradualmente modificato i dati di partenza. (p. 68)
Il contratto, in occidente, è dunque sinonimo di patto la cui stabilità si fonda sulla “definitività” del testo scritto. Petrarca, notaio figlio e nipote di notai, persegue ossessivamente la perfezione formale e materiale del testo, costruendo l’idea e la pratica di edizione “definitiva”. L’attitudine autorial-notarile di Petrarca tende a escludere ogni forma di variazione a favore della stabilità-trasmissibilità del testo: per il notaio è necessario capire che cosa c’è sotto la cancellatura e questa non è mai alternativa, ma sostitutiva, giacché corrisponde alle volontà dei contraenti, che è legata alla cronologia. Come notava già Daniel Ferrer, “errors are failures to repeat” e a questa difettosità dell’atto di scrittura (la “falla” di Jullien) occorre in qualche modo ovviare, pena la corruzione del testo-proprietario. L’idea di “testo originale” si lega dunque a quella di “testo leggibile” e tale connessione è probabilmente all’origine dell’idea moderna (e vincente) di critica del testo come restauro di un manufatto univoco e dunque riproducibile. Uno sforzo ricostruttivo i cui metodi e strumenti finiscono però per oscurare l’essenza dinamica della scrittura come forma di vita.
Quale è il posto di XML-TEI in tutto ciò? Si potrebbe dire che le metodologie di codifica – e le conseguenti, enormi resistenze per modificarle – siano forme contrattuali? A mio parere sì. E le TEI guidelines (ma si potrebbe dire lo stesso di ben altre imprese, come UNICODE) sono colossali casi di contrattualizzazione delle forme (sempre variabili) del testo. Tale bulimia contrattuale è testimoniata da centinaia di pagine di regole, un’infinita e perenemmente imperfett(ibile) opera di modellizzazione della realtà testuale, che in quanto dinamica può essere modellizzata, come suggeriva Gigliozzi, solo dall’individuo “vivo” che legge. Al contratto occidentale sfugge dunque ciò che Jullien chiama “il potenziale performativo” della situazione reale:
L’immagine europea della via è legata all’idea di un compimento, sempre il telos; mentre il tao cinese non è una via che conduce a ma la via per la quale qualcosa passa, attraverso cui è ‘viabile’. E’ la via della regolazione, la via dell’armonia attraverso cui il processo, non deviando, si trova incessantemente ricondotto. (p 82)
In conclusione potremmo dire, parafrasando Oscar Wilde, che a model is a paradox that we have to live, but not necessarily to follow…